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Da ex tennista, nella mia follia di atleta, pensavo che le mie racchette avessero un’anima e che in qualche modo potessero ascoltarmi.
 
In fondo sapevo che non era così, ma quell’alleanza a volte mi aiutava a non sentirmi sola, a condividere quei momenti di angoscia o felicità con qualcosa (o “qualcuno”) che rispettasse il mio punto di vista senza controbattere.
Poi le punivo, sbattendole per terra o lanciandole contro la recinzione. Anche questo aiutava a scaricare lo stress.
 
Nel corso di questi anni ho trovato tanti atleti “folli” che, come me, parlano ai propri “attrezzi”, che siano palloni, scarpette, mazze o moto… Binomi di amore-e-odio, che in qualche modo regalano qualche sicurezza in più.
Da coach mi sono ritrovata a sussurrare ad una maglietta su richiesta di un atleta, a chiedere ad una moto di proteggere “il mio ragazzo”… e tanti, tanti altri discorsi fatti ad oggetti che non potevano ovviamente sentirmi ma che, in qualche modo, avevano dentro il cuore dei miei atleti.

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